giovedì 19 febbraio 2015

La suggestione del pensiero di S. Agostino in un romanzo dei nostri giorni

Pubblico in questa sede una mia recensione al libro Il sermone sulla caduta di Roma di Jérôme Ferrari. Il contributo era apparso sul Liofante, periodico della Pro Loco di Colli del Tronto, nell'ottobre 2013. Segue una mia poesia.

Quest’estate mi sono fatta sedurre dal titolo di un romanzo, davvero suggestivo: “Il sermone sulla caduta di Roma”. Scritto dal francese Jérôme Ferrari, docente  di filosofia presso varie università francofone, il romanzo si è aggiudicato il premio Goncourt 2012, uno dei più prestigiosi  riconoscimenti letterari francesi. È stato tradotto recentemente in italiano per le Edizioni e/o. L’evocazione del titolo, che ricorda l’omonima opera del filosofo Agostino (S. Agostino, vescovo di Ippona 354-530 d.C. ) permane nei capitoli, ciascuno dei quali, ad eccezione dell’ultimo, è fatto precedere da una frase dello scrittore latino tesa a mettere in evidenza la vanità del mondo terreno, rispetto alla Città di Dio (è senz’altro presente anche l’eco dell’omonima opera De civitate Dei).

Agostino, con la sua filosofia sul contrasto tra città divina e la città umana,  è uno dei due filosofi che reggono le fila del romanzo. L’altro è Leibniz (1646-1716) che incombe sulle storie dei personaggi con il suo monito relativo alla sua teoria dei mondi possibili, secondo cui quello in cui ci troviamo a vivere è solo, appunto, uno dei tanti mondi che ci si è manifestato, non certo il migliore e il più compiuto.

I due filosofi sono, non a caso, quelli che i due protagonisti, Libero e Matthieu, studiano all’università, senza troppa convinzione. Essi sono due giovani legati quasi ab origine, fin da quando, ogni estate il piccolo Matthieu veniva mandato in un paesino della Corsica in vacanza, ospite di Libero, di cui diventa amico di vita. Qui vive anche il nonno di Matthieu, Marcel un vecchio scontroso, la cui storia si alterna nel romanzo a quella del nipote. In questo avvicendarsi di peripezie delle tre generazioni coinvolte (quella del nonno, dei genitori e di Matthieu stesso) si scopre che ciò che regge la storia umana è sempre lo stesso principio: il mondo che ciascuno di noi (si) crea, si esaurisce in se stesso, perché non rappresenta nient’altro se non la città terrena, transeunte ed effimera, di fronte alla civitas Dei, eterna. Tale mondo è inoltre autonomo ed indipendente, parallelo ad ogni altro, come può esserlo ogni periferia  rispetto al centro. E così Marcel, che ha vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale e che ha vissuto la sua vita prevalentemente lontano dal centro, Parigi (la nuova Roma!) sia come funzionario in Africa per la ricostruzione post- bellica, sia da vecchio, in Corsica (la sua terra di origine), vede il mondo da lui creato morire in se stesso, senza più legami con il centro della cultura francese. Come le province romane secoli prima, così lui si è sempre sentito “a parte” rispetto al continente,  dove ha affidato suo figlio (Jacques) alle cure della sorella, non sentendosi di accudirlo dopo la perdita della moglie. Jacques finisce per sposarsi con la cugina (Claudie). Da questa unione nascono Aurelie e il nostro Matthieu. Che finisce per tornare proprio in Corsica. Dopo una breve parentesi universitaria in cui lui, per onorare il vecchio legame di ospitalità ricevuto da piccolo, ospita a sua volta a Parigi il suo amico Libero, i due decidono che questa realtà non fa per loro. Rilevano pertanto un vecchio e famoso bar esistente nel paese di Libero, ma da tempo caduto in disgrazia e danno vita ad una “nuova età”, fatta di mondanità, divertimento, spensieratezza, di volontaria  chiusura rispetto a tutto ciò che è impegno, affetto, sentimento. Per approdare  in tale ambiente Matthieu ha dovuto rinnegare il suo amore di gioventù per una “brava ragazza”, la studiosissima e brillantissima Judith Haller. Anche se teoricamente vive con il nonno Marcel, egli ha trovato la comodità di dormire nell’appartamento dove vivono le cameriere assunte per il bar in particolare con la spagnola Izaskun. Egli la considera come sorella e non vede niente di male nel dormire carnalmente con lei la notte, per poi trattarla come normale dipendente di giorno. In questa sua nuova vita egli decide di non soffrire quando  sa che suo padre è malato, né decide di andarlo a trovare  a Parigi, con grande risentimento di sua sorella Aurelie. Sarà Jacques a tornare, da morto, in Corsica, alla terra paterna. Le regole di tale modus vivendi, però, iniziano a presentare il loro  salato conto: Libero e Matthieu devono constatare cos’è il  mondo che hanno creato con il loro bar: il loro locale (e l’ambiente circostante)  è diventato un autentico bordello, dove si va per bere, bestemmiare, per provarci con le cameriere; è un ambiente in cui si consumano gelosie, risentimenti tra persone, in cui viene meno la fiducia reciproca fra padroni e dipendenti, gestori e avventori. Proprio un di questi risentimenti, consumatosi in un omicidio da parte di Libero nei confronti di uno degli avventori, costituisce la goccia che fa traboccare il fragilissimo “vaso di  Pandora” costituito bar. Che viene lasciato, anche per i problemi economici, sopraggiunti ai vari “malaffari” degli ultimi tempi. A sorpresa il romanzo si chiude con la rievocazione della notte in cui i  barbari saccheggiano Roma (410 d.C.) commentata dalla solita (e apparente) indifferenza  agostiniana per la vanità del mondo terreno; ciò fa da sfondo sia alla morte di Marcel, sia all’inizio del nuovo mondo di Matthieu, a Parigi, finalmente con la sua Judith, che non ha abbandonato gli studi e ora è diventa insegnante. Anche stavolta la nuova vita si apre in chiusura con quella precedente. Dal romanzo, infatti, si capisce che egli torna solo due volte in Corsica nel giro di otto anno: la prima per testimoniare in favore del suo amico Libero, che aveva ucciso sì l’avventore, ma per difendere un suo dipendente aggredito da quello, la seconda mentre il nonno sta morendo. Matthieu, però, è sempre lo stesso, come espresso dal punto di vista della sorella: “Non è cambiato. Crede sempre che basti guardare dall’ altra parte per rispedire al nulla interi pezzi della propria vita. Crede sempre che ciò che  non si vede smetta di esistere”.
 Nonostante le tragedie, quindi, il mondo va avanti: l’uomo sembra aver bisogno di chiudere violentemente con un mondo che ha amato alla follia, per dimenticare il suo vero amore, ma nel quale, godendo, si è perso. Questa chiusura  con la vita precedente sembra realizzarsi solo con l’apertura traumatica di un’altra, altrettanto indipendente. Non solo allora ogni mondo umano è destinato a morire; esso è anche una monade isolata da ogni altra. Si realizzano, pertanto, sia le verità sia di Agostino che quelle di Leibniz. E allora, l’amicizia malata tra Libero e  Matthieu,  è davvero suggellata (e forse chiusa?) solo da un rapporto giuridico di testimonianza? Il romanzo non fornisce alcuna risposta a questa domanda; anzi la sua bellezza più grande risulta, a mio parere, proprio dalla narrazione sfumata sugli ultimissimi episodi (come il ricongiungimento con Judith) suggeriti, piuttosto che descritti, a differenza della precisione narrativa dei capitoli precedenti. Altro elemento vincente dello stile narrativo consiste nel susseguirsi del tutto casuale dei capitoli dedicati a Marcel, di quelli dedicati alla famiglia di Matthieu e di quelli dedicati a lui stesso, sicchè i loro mondi sembrano davvero restare, a lungo, paralleli e distanti.
Buona lettura!

Lascio qui di seguito una mia poesia a tema 
La fine dei Mondi possibili 
 
Notte d’estate…

È caduto il raggio

Sul tuo tramonto.

Nessun centro

Nessun altare

Tutto è Vuoto,

il Mondo è Deserto.
Silenzio Epocale
Mi abbracci
Eternamente
Stasera.
E mi sovvengono
Ricordi improvvisi
Presenti abissi
Infiniti presentimenti.
Tu…
Dove sarai
Domani?
 Te
Che amo
E che odio
Alla follia
Per sempre!
Tu…
Il mio sangue
La mia paura.
Si è chiuso
Stasera…
È morto
Un altro mondo.
J. FERRARI, Il Sermone sulla Caduta di Roma, tr. it. a cura di A.BracciTestasecca, Edizioni e/o, Roma 2013, 175 pp. 17 Euro






















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