L’Italia è il paese del Bello. Da
sempre, si sa. Clima, paesaggio, opere d’arte: un cocktail ideale per rendere il cittadino felice. Ideale non nel
senso di utopico, ma nel senso di adatto, capace, realizzabile. E il cittadino
felice rende felice la città, così come la città felice rende tale il
cittadino. Già Aristotele la intendeva così.
Quindi idealmente l’Italia, per
sua stessa inclinazione naturale, è portata a rendere felice il cittadino.
Felice significa soddisfatto, pieno, che non manca di nulla alla realizzazione
della propria essenza, fatta di razionalità e di sentimento. E questa è la
cultura. Cultura deriva da colere,
che significava in prima istanza venerare, ma anche coltivare la terra, e poi
coltivare se stessi. La cultura, dunque, è compartecipazione di natura e uomo,
ecco perché la natura stessa dell’Italia non basta a rendere felice il
cittadino, deve intervenire l’uomo, lo Stato.
L’Italia ha perso la sua vocazione
naturale alla cultura da tempo: da quando il sole della speranza e del domani
si è raffreddato, da quando gli uomini non
assecondano la natura italica, del
bello!
Ecco allora crollare antichi
monumenti dei romani, e insieme ad essi il destino della civiltà.
Perché la tutela della cultura
implica un impegno. Ma la cultura non ha a che fare con la coltura, pur
derivando entrambe dalla stessa radice etimologica e semantica. Si può spendere
per coltivare un prodotto che mangerò (agricoltura), ma non per restaurare un
sito archeologico che potrò solo
ammirare.
Non ho niente contro
l’agricoltura, anzi penso che essa possa contribuire alla salvaguardia della
cultura italiana in senso lato; il mio esempio voleva solo richiamare la
prassi, purtroppo in uso, di lasciare decadere ciò che non ha un valore
concreto.
È nota la consueta distinzione tra
tre settori dello sviluppo economico in primario, secondario, e terziario,
rispettivamente agricoltura, industria e turismo.
Con una provocatoria traslazione
di senso, ma poi neanche di tanto, vorrei far notar come quello che convenzionalmente
viene chiamato settore terziario dovrebbe essere invece assunto come settore
primario. Perché se primario indica, in economia, ciò che concerne la
produzione di ciò è primario per la stesa sussistenza biologica, il cibo,
primario può, in senso traslato assurgere alla produzione di ciò che è primario
per la sussistenza del logos umano,
essenza stessa dell’umanità, quando la si consideri al di là del suo essere
animale; primario per l’umanità è il
logos, inteso come un insieme di facoltà che realizzano la cultura;
primario è il turismo come attività che consente la tutela e lo sviluppo della cultura, concetto ampio
che accoglie anche quello agricolo, ma anche quello di tutto ciò che implica
formazione del cittadino.
E allora l’Italia, considerando
primario il turismo, dovrebbe cambiare prospettiva. Non dire più che conservare
il ricco patrimonio di cui è erede è una spesa che non ci può permettere, ma
dire invece che è l’unica spesa dalla quale non si può essere esenti.
Ogni anno numerosissimi stranieri
colonizzano l’Italia, dalle città tradizionalmente vocate al turismo ai piccoli
centri, gioielli sempre più competitivi.
Se tutte le risorse economiche,
invece di essere convogliate verso attività falsamente ludico-sportive, o verso
la realizzazione di una cultura di massa sempre più volgare e superficiale, venissero dedicate ad educare i
cittadini, fin da piccoli, a considerare come belli i musei e i parchi che hanno nella loro
città, allora nessuno di noi sentirebbe la cultura come un peso da cui
liberarci. Si dovrebbe insegnare alle generazioni che lo studio della storia
dell’arte è un gioco, un vero gioco; si dovrebbero incrementare le strutture
ricettive atte ad accogliere i turisti; ogni sindaco dovrebbe la domenica
portare a spasso in città i propri cittadini, e fare loro da Cicerone. Si
dovrebbe investire in una politica che, abrogando la continua cementificazione
che sta rendendo brutto il nostro paese, ricicli il più possibile i copiosi
palazzi antichi che il bel paese ha ereditato dal passato. Non c’è niente che,
seppure in modi e forme diverse, non possa tornare in vita!
Dovrebbe nascere un nuovo partito
del Bello, e programmi elettorali tesi solo alla realizzazione e conservazione
del Bello; ci dovrebbe essere un nuovo Illuminismo, ma di impronta
liberal-democratica. Si dovrebbe governare rispettando l’essenza dell’Italia,
ovvero la Bellezza.
Bisognerebbe costruire piste
ciclabili e pedonali percorrendo le quali i cittadini, possano combattere la sedentarietà e ammirare
il Bello che li circonda; bisognerebbe aprire fonti d’acqua ovunque, con cui
estinguere ovunque la sete; i maestri dovrebbero fare lezioni nei parchi,
all’aperto, restaurando una nuova scuola peripatetica. Collaborando, politici,
uomini di cultura e scienza, dovrebbero realizzare quell’ idea di mens sana in corpore sano, nei cittadini
e nella città tutta.
Si dovrebbero incrementare le
risorse elettroniche al fine di rendere democratica e partecipate
l’informazione culturale e si dovrebbe investire nella potenza della
pubblicità, in modo da piegare al Bene il suo grande potere persuasivo. Gli
uomini che lavorano nella comunicazione, dovrebbero lavorare in vista
dell’onestà, cercando di proporre messaggi accattivanti, concernenti il Bello.
Le campagne pubblicitarie, così intese, potrebbero davvero configurarsi come
pubblicità-progresso.
L’Italia deve affidarsi ad una
nuova classe, quella del Bello, valore universale di cultura e di sviluppo.
Solo così, investendo nella scuola, nell’università e in tutti i percorsi formativi
paralleli ad essi, l’Italia potrà realizzare se stessa, ovvero la sue Bellezza,
che è cultura.
Filomena Gagliardi
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